Obbiettività del bene comune invece del soggettivismo della teoria economica
La creazione di valore è un mito, che ha consentito di sottrarre una immensa quantità di ricchezza alla società per concentrarla nelle mani di pochissimi straricchi. Questa è la tesi dello studio di una affermata economista anglo-italiana, Mariana Mazzucato, dal titolo: Il valore di tutto, chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, ed. Laterza. Il mito è collegato con l’affermarsi, negli ultimi decenni, del pensiero marginalista nella teoria economica. Riguardo al valore dei beni economici i marginalisti escludono il riferimento ad una base oggettiva, come la quantità di lavoro necessaria per produrli, riferendosi solo a fattori soggettivi, come l’utilità marginale del consumatore. L’insufficienza dell’utilità, appare dalla considerazione che ad es. l’acqua, indispensabile per la vita, quindi con grande utilità, può avere un prezzo pressoché nullo, mentre diamanti e oro, con bassa utilità, costano moltissimo. L’impostazione marginalista comporta che il valore dei beni coincida col prezzo che si instaura sul mercato, grazie al gioco (influenzabile ma ritenuto obbiettivo) della domanda e dell’offerta. Con l’identificazione del valore con il prezzo viene operata una sovra-semplificazione della realtà: si esclude la possibilità di dare un giudizio di valore etico o politico a ciò che viene prodotto; diventa difficile rendere la crescita “più smart” (guidata dagli investimenti sull’innovazione), più sostenibile (o “verde”) e più inclusiva (che produca meno diseguaglianze). Il mercato appare come un’entità anonima, che decide tutto e la cui validità non può mai essere messa in discussione: un mito, appunto, al di sopra delle volontà umane.
La finanza è un primo settore su cui si concentra la critica della Mazzucato. Fino agli anni ’60 del secolo scorso la finanza non veniva normalmente inclusa tra i settori che producono valore, quali l’agricoltura o l’industria. Era considerata un servizio di intermediazione che agevola il lavoro dei settori produttivi. Oggi si è ridotto al lumicino questo ruolo della finanza, mentre si è gonfiata enormemente la raccolta di capitali alla ricerca di guadagni speculativi, senza fatica lavorativa e prevalentemente a breve termine. Così gli scambi finanziari superano di molte volte quelli produttivi. Avviene ad es. che i manager scelgano di spendere una grande quota dei profitti per comprare azioni della propria azienda invece di investirli per migliorare l’attività produttiva; in tal modo fanno aumentare i prezzi delle azioni e, con ciò, le loro remunerazioni. In questo e altri casi analoghi di speculazioni finanziarie non si può certo parlare di creazione di valore, piuttosto di appropriazione di valore da parte dei manager o di chi conduce l’operazione. Un altro esempio di uso del mito della creazione di valore può essere reperito nel campo farmaceutico, dove certe case che hanno scoperto un nuovo farmaco lo vendono a prezzo molto superiore al costo di produzione, appellandosi al valore risparmiato con la guarigione dei malati.
Gonfiamento fittizio. Si può infine ricordare, anche se la Mazzucato non ne parla, che il mito della creazione di valore pervade pure una fetta crescente dell’economia, quella finalizzata a creare e soddisfare bisogni superflui. Attraverso la pubblicità, ma anche altri efficaci strumenti di convinzione oggi disponibili, si possono creare nuovi bisogni, talvolta anche dannosi, per vendere beni o servizi. Quando la loro utilità non è verificata – cosa che accade sovente – si ha un gonfiamento fittizio dell’economia, che cresce su sé stessa, esportando modelli consumistici e favorendo i più ricchi. In questa logica la pubblicità di beni superflui è più distruttiva che costruttiva.
Gerarchia di valori. Per smontare questi miti si può iniziare cercando di formulare una scala di ambiti al vertice della quale è più probabile la creazione di valore e al fondo la distruzione, restando inteso che la responsabilità pertiene non soltanto a chi produce, ma anche a chi consuma. Al vertice potrebbe essere posto tutto ciò che consente un miglioramento dell’uomo nelle sue molteplici attitudini e componenti, cioè la crescita umana. Inversamente, all’ultimo posto ciò che lo danneggia nel fisico, nella mente, nello spirito, a breve o a lungo andare. Poi ci sono i valori collettivi, tra i quali, al primo posto oggi dovrebbe figurare quanto possa evitare il disastro climatico e la guerra. Quest’ultima, anche se ritenuta per certi aspetti fautrice di progressi tecnici, rappresenta, nell’era atomica, il massimo pericolo di distruzione della civiltà e della stessa umanità, prima ancora del disastro ambientale: oggi, finalmente, la guerra dovrebbe essere bandita dalla civiltà, così come da tempo è stato bandito l’incesto. All’interno di questi estremi possono essere collocate le grandi varietà di attività e preferenze oggetto delle nostre attenzioni: professionali, ludiche, artistiche, volontaristiche, sportive ecc. Una certa menzione, nella sfera economica, meriterebbero il senso del limite, la solidarietà con gli esclusi, valori che potrebbero anche attutire la severità delle crisi cicliche. In definitiva il grande merito di questo libro della Mazzucato è di aver denunciato l’insufficienza della soggettività nella teoria economica e la necessità invece di riferirsi a valori obbiettivi del bene comune.