Ruolo degli “investimenti incagliati” e del potere del big oil nel fallimento climatico.

Liberamente tratto da: Maurizio Franzini, Potere e cambiamento climatico, Menabò n. 218, 30 giugno 2024

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Il fallimento climatico:  riguarda il ritardo nel dare corso alle politiche necessarie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale, ed in particolare quello definito a Parigi nel 2015: il contenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta a 1,5 gradi entro questo secolo rispetto al dato di fine ‘800. In occasione del COP28 tenutosi nel novembre 2023 a Dubai, è stato presentato il primo Global Stocktake, cioè il rapporto sullo stato di avanzamento delle politiche che dovrebbero garantire il raggiungimento di quell’obiettivo. Da esso (ma anche da altre fonti) risulta che, malgrado qualche progresso, l’obiettivo resta molto lontano. Uno dei principali motivi potrebbe consistere negli investimenti incagliati (stranded assets) che consistono nelle riserve di carbone, petrolio e gas naturale già disponibili alle grandi compagnie (Big Oil) e che perderebbero ogni valore se il loro utilizzo calasse nella misura richiesta per rispettare gli accordi di Parigi. Secondo talune stime, le perdite, soprattutto in termini di caduta del valore di borsa delle società proprietarie di quegli investimenti, sarebbero enormi, attorno a 1400 miliardi di dollari. Sarebbero danneggiati gli azionisti delle società fossili, tra i quali figurano importanti fondi di investimento e governi (India e Arabia Saudita).

La strategia del Big Oil  può essere scorsa ricostruendo alcune vicende degli ultimi decenni. È documentato che erano a conoscenza da tempo degli effetti dannosi per il clima dei fossili, ma si sono ben guardate dal renderli noti, anche nel timore di perdere i forti sussidi pubblici destinati ai fossili. In passato, le Big Oil hanno sostenuto tesi negazioniste, agitando il rischio del blocco della crescita economica, con peggioramenti per tutti. Più di recente la strategia sembra essere quella di prendere posizione contro l’innalzamento delle temperature, ma soltanto in pubblico; in privato perseguono ben altri obiettivi, anche con attività di lobbying, come risulta da numerose comunicazioni interne alle compagnie. Un esempio riguarda la Shell che da tempo si è schierata a favore di una carbon tax, ma all’atto pratico ha osteggiato la sua introduzione nello Stato di Washington. Un altro esempio è del febbraio 2020, quando BP ha annunciato l’intenzione di diventare un’azienda a emissioni nette zero entro il 2050 o anche prima e di voler “aiutare il mondo ad arrivare a emissioni nette zero”. Ma da alcune e-mail private emergono i dubbi dei vertici dell’azienda sul raggiungimento di questo obiettivo, rimandando al problema degli investimenti incagliati.

Lobbying:  per quanto riguarda queste attività sembra di poter affermare che le Big Oil abbiano rinunciato al lobbying indiretto, cioè al tentativo di influenzare l’opinione pubblica, ma si siano concentrate su quello diretto, quello mirato sui policy makers e sui burocrati da cui dipendono più direttamente le politiche che incidono sulle emissioni inquinanti. Sembra, dunque, che abbiano concluso di non avere il potere di influenzare il processo di decisione politica collettiva e di sfidare la scienza ufficiale, ma di limitarsi al potere di incidere sulle politiche concretamente attuate. In ogni caso gli investimenti nei fossili continuano ad essere effettuati da parte di compagnie che magari si presentano come leader dell’energia pulita. Al momento risulta che numerose grandi imprese del fossile, tra cui Chevron, Exxon Mobil e Eni, hanno progetti espliciti di aumento della produzione di petrolio e gas. Altre (in particolare BP e Shell) vendono asset inquinanti a imprese che le utilizzeranno, ovviamente inquinando; ma questa strategia consente loro di evitare perdite senza apparire direttamente responsabili delle emissioni.

Potere.  Siamo, dunque, di fronte a strategie che sollevano qualche inquietudine e che sembrano possibili solo se si ritiene di avere il potere (perché di questo si tratterebbe) di fare il contrario di quanto si afferma; di dichiararsi a favore dell’interesse generale mentre si persegue il proprio particolare tornaconto. Con i necessari adattamenti si può interpretare il fenomeno degli investimenti incagliati alla luce della nozione di distruzione creatrice introdotta da Schumpeter: il nuovo – derivante in questo caso non da una innovazione tecnologica ma dalla percezione che il vecchio sta conducendo verso rischi catastrofici – implica perdite per chi ha investito nel vecchio, come accade con l’ingresso degli innovatori nel mercato. Ma se il mercato, premiando l’innovatore, non lascia speranze al vecchio, i processi di attuazione delle nuove politiche sono esposti alla forza e al potere del vecchio. E questa forza sarà, per vari motivi, tanto maggiore quanto più concentrate e elevate sono le perdite del vecchio, il che rimanda a un’altra manifestazione del potere, quello che in passato ha consentito di accumulare l’immenso capitale che ora rischia di perdere valore.

Democrazia.  Tutto ciò, osservato da un altro punto di vista, significa che se l’interesse generale è per il nuovo mentre l’interesse particolare è per il vecchio, la prevalenza di quest’ultimo è di serio disturbo per la democrazia. Ciò naturalmente non vuol dire che le politiche di contrasto del cambiamento climatico non abbiano anche altri avversari, ma si tratta di avversari certamente assai meno influenti, non dotati di potere. Basti pensare a tutti i lavoratori in vari modi danneggiati, in assenza di interventi compensativi, dalla transizione ecologica. Ma lo sono, appunto, in assenza di interventi compensativi (sui redditi e soprattutto sulla formazione delle nuove competenze) che possono essere visti come una sorta di indennizzo per la perdita di valore dei loro piccoli o grandi capitali umani.

Politiche compensative:  alla sostanziale inerzia nell’attivare queste politiche si aggiunge l’avversione generale a politiche di carattere redistributivo che almeno in parte dipendono dal potere – il potere di difendere le disuguaglianze vantaggiose, che probabilmente comprende anche quello di salvaguardare i vecchi investimenti. Le perdite derivanti dagli investimenti incagliati (1400 miliardi di dollari) sarebbero quasi interamente a carico di chi rientra nel 10% più ricco della popolazione, e molti di essi, si può aggiungere, si sono arricchiti grazie anche ai generosissimi sussidi elargiti negli scorsi anni al fossile. In breve, quelle perdite sarebbero compatibili con criteri di equità, diversamente da quelle dei lavoratori che svolgono mansioni che inquinano. Dunque, concludendo, molto resta da comprendere nel complesso rapporto tra potere e cambiamento climatico e se si volesse cercare di farlo si dovrebbe tenere presente che il potere del ‘vecchio’ è connesso in più di un modo alla disuguaglianza, oltre che alla debolezza della democrazia.

* Questo articolo ritorna su temi trattati in M. Franzini, “Il fallimento climatico e le sue ragioni”, Meridiana 108, 2023.

AUTORE

Crescita Umana

CATEGORIA

DATA

23 Luglio 2024

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